In occasione della seconda edizione del libro di racconti del brivido Quattro passi nell’incubo (disponibile a questo link), abbiamo intervistato l’autore, Giovanni Boccuzzi, giornalista barese e scrittore esordiente.
Le storie presenti in Quattro passi nell’incubo sono di generi diversi. Come mai questa scelta?
Ho scelto quattro storie che più stavano bene insieme. Quattro generi che adoro e che meglio possono rappresentare l’incubo da diverse prospettive. C’è chi si perde nelle storie d’amore, chi trova irresistibili le storie criminali, chi l’avventura, io mi rifugio in quelle horror, fantascientifiche, grottesche e thriller.
Da lettore come ti poni di fronte a questo tipo di storie?
Nonostante ci siano stilemi usati e abusati, credo che l’horror fatto bene non sia mai banale e io ne resto sempre affascinato. Mi piace entrare nelle pieghe di quelle storie, cercare di vedere gli angoli bui che il regista o lo scrittore non mostra. Per la fantascienza la penso così: percorrendo strade estreme, ci svela come sarà il nostro futuro. Guardate i romanzi di Jules Verne, quante cose hanno predetto? I thriller sono un modo per conoscere i lati più oscuri dell’essere umano, quelli più perversi: un vero trattato di antropologia. Il grottesco lo adoro e credo sia il genere che più mi inquieta. I racconti di Kafka e Buzzati hanno una potenza incredibile.
I racconti di Quatto passi nell’incubo sembrano invitare il lettore a partecipare alla storia, non tanto come protagonista, ma come parte attiva accanto all’autore.
Credo sia fondamentale l’apporto del lettore o dello spettatore per completare e rendere viva una buona storia, grazie alle domande che da essa scaturiscono. Cercare le risposte o semplicemente lasciarsi incantare dall’estetica del racconto, sono le due possibilità che ha il lettore-spettatore. Io personalmente preferisco la seconda. La bellezza, il fascino della narrazione di una bella storia è negli occhi di chi legge. Come è scritto in un racconto di Stephen King “è la storia, non colui che la racconta”.
Come nasce in te l’ispirazione per una storia?
Non parlerei tanto d’ispirazione, ma di spunto per una storia. Lo spunto può nascere da un’immagine che mi ritorna più volte in mente, da possibilità non sviluppate da un film, da situazioni quotidiane o semplicemente dall’accostamento di due parole, dal loro suono. Ad esempio, l’altra sera ero a teatro per un concerto e ho iniziato a immaginare che uno dopo l’altro i componenti dell’orchestra scomparissero avvolti dal buio, ma che la musica non si potesse interrompere e i restanti membri dovessero continuare a suonare per forza. Quindi ho iniziato a farmi delle domande: perché scompaiono? perché la musica non può smettere? cosa o chi li sta inghiottendo nel buio? Man mano che scrivo, cerco di trovare risposte a domande come queste, poi a guidarmi è la storia stessa. Di solito, parto da una situazione particolare: per il racconto Il gioco è quella di restare intrappolato in un paradosso architettonico (la scala di Penrose), e poi cerco di costruirci attorno una storia che regga quella particolare situazione. Mentre scrivo cerco sempre di avere presente come mi piacerebbe leggere quella storia se non l’avessi scritta io, così provo a soddisfare prima questa mia esigenza.
Ogni autore ha almeno un Maestro, un lume tutelare con cui confrontarsi. Quali sono i tuoi?
È importante, fondamentale, avere dei punti di riferimento. Per quanto mi riguarda, non si tratta solo di riferimenti in ambito letterario ma provenienti da tutte le altre arti. Fumetti, musica, pittura, scultura, mi interessano per come raccontano la storia che raffigurano. Un quadro, quella particolare scelta di inquadratura, di luce, di posizione nello spazio dei soggetti, sono il modo di raccontare dell’autore: è questo che mi interessa. Tra i punti di riferimento non posso non citare Stephen King che considero il più grande narratore dei nostri tempi, la sua capacità di farti immergere dentro le sue storie non ha eguali.