Bif&st, Bertolucci e la porta aperta del cinema

La standing ovation che accompagna l’entrata del regista emiliano Bernardo Bertolucci per l’ultima masterclass del Bif&st 2018 al teatro Petruzzelli, è seguita da un magico silenzio: tutto il pubblico pende dalle labbra del maestro per ascoltare i suoi racconti.

Bertolucci non si esime dallo svelare il suo approccio alla regia: «Non potrei fare un film con un attore che mi sia stato imposto dal produttore – chiarisce – ho bisogno di amare qualcuno per potermi avvicinare a lui con la macchina da presa. Durante le riprese i personaggi escono dalle pagine scritte della sceneggiatura e prendono carne, per questo mi piace far partecipare gli attori al processo creativo del film».

Bertolucci enuncia le sue scoperte cinematografiche: da Maria Schneider a Eva Green, da Dominique Sanda a Liv Tyler. «Ho sempre trovato interessante indagare personaggi femminili – dichiara –, un regista deve saper dare corpo al personaggio scritto usando il materiale umano a disposizione cioè i segreti, i misteri della persona che lo interpreta».

La masterclass si sofferma su Ultimo tanto a Parigi, controverso capolavoro del ’72 con Marlon Brando. «Alla Paramount mi dissero che Brando era un attore finito, una vecchia carcassa – ricorda il regista – così abbandonai la major e trovai la United Artists. Marlon era una persona curiosa, viveva in un suo mondo di solitudine, in cima alla sua villa a Hollywood, con i suoi cimeli di culture orientali».

Il regista insiste su Ultimo tango: «Se non ci fosse stato il ’68, non ci sarebbe stato Ultimo tango a Parigi – dichiara Bertolucci – senza il ’68 non sarei riuscito ad arrivare così lontano nella libertà di fare un film come quello. In quegli anni, c’era un bisogno fisiologico di svecchiare e una straordinaria elaborazione collettiva di un sogno: cambiare il mondo era la nostra piccola ambizione. Pensavamo che tutto fosse politica e volevamo svegliare un inconscio collettivo soppresso, soprattutto quello femminile».

Bernardo Bertolucci svela chi sono stati i suoi maestri: «Jean Renoir mi ha insegnato a lasciare sempre una porta aperta sul set – spiega il regista – instaurare un dialogo con gli attori, sfruttando gli spunti che provengono dagli spifferi che attraversano quella porta».

Il regista, profondo amante del cinema, lo paragona a un bambino appena nato che, inizialmente muto, ha cominciato a parlare con il sonoro, poi da bianco e nero è diventato a colori. «Oggi col digitale si cerca di imitare la pellicola – afferma Bertolucci, parlando del cinema attuale – ma bisognerebbe invece sfruttare il nuovo strumento con le sue peculiarità».

Il regista emiliano ricorda, infine, il suo film più acclamato: L’ultimo imperatore, vincitore di nove premi Oscar, tra cui quelli al Miglior film e alla Migliore regia. «La notte degli Oscar mi sembrava di essere entrato in un luna park, in un circo. Durante la premiazione ero come in trance».

Durante i saluti finali, Bertolucci viene raggiunto da Vittorio Storaro, suo storico direttore della fotografia in tanti film e vincitore dell’Oscar per L’ultimo imperatore. Ancora una volta il pubblico del Petruzzelli è tutto in piedi ad applaudire i due maestri del cinema italiano.

 

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